Chi può parlare

Sei nuovo in palestra, ti serve un consiglio “tecnico” qualsiasi, a sedere su una panca c’è un tipo bello grosso, in piedi vicino a lui c’è un altro tipo che avrà un BMI di 40, un modo politically correct per dire “ciccione”, accanto uno molto magro, altro modo politically correct per dire “secco”. A chi fai la domanda?
Questa è una variazione di “andresti da un nutrizionista obeso?” o “ti fidi di un dottore che beve e fuma?” In palestra il “tecnico” obeso è ammesso, oppure no? E il “tecnico” secco? O sedentario? “Colui che sa” deve essere “grosso” o “forte”?
Discussioni come queste sono simili a “è possibile l’amicizia fra l’uomo e la donna”, cioè possono andare avanti ad oltranza senza arrivare a nessuna conclusione, né c’è bisogno che questa ci sia perché servono semplicemente per passare il tempo.
Certe volte viene fuori qualcosa del tipo “ma Sacchi ha allenato la nazionale senza essere un calciatore”, per dire che non serve aver avuto delle prestazioni, dei “numeri” per essere bravi a farle fare. Altre volte si sente dire “Steven Jobs non era laureato eppure…” e altre volte ancora “gli allenatori di ginnastica non sono dei ginnasti”
Il punto è che l’abito non fa il monaco… ma un po’ lo fa, è innegabile, specialmente in un settore dove il “corpo” è centrale: uno con un bel fisico ha più credibilità come “esperto”, “può parlare” di palestra, di uno che non ce l’ha. Crudele, ingiusta, sbagliata ma è la realtà. E mai come oggi questa è la realtà, dato che è fatta di influencer, macro e micro, che hanno seguito grazie al loro corpo poiché la stessa informazione, dalla verità più scientifica all’idiozia più palese, ha valore o meno proprio grazie alle forme corporee.
Il “corpo” che dà valore alle proprie idee è uno dei motivi della diffusione endemica del doping per ottenerlo. Ma questo è un altro discorso.
Mark Rippetoe, un eccezionale allenatore americano, moltissimi anni fa dette quella che per me rappresenta la risposta perfetta a “chi può parlare?”, perciò preferisco far parlare lui.
“Allenare, nella sua essenzialità, significa essere capace di spiegare a qualcuno le cose che ha bisogno di sentire per permettergli di fare con il suo corpo la cosa che sta cercando di fare […] Decisamente interessante, atleti bravi perchè dotati spesso sono degli allenatori molto scarsi. Non si sono mai trovati in situazioni in cui non erano capaci a fare bene, e non possono capire come spiegare qualcosa che loro mai si sono trovati ad imparare.
I migliori allenatori solitamente erano atleti di modesta levatura. Hanno lavorato duro con doti genetiche molto lontano dalla perfezione, e hanno raggiunto i loro risultati attraverso la costanza e le abilità acquisite. Hanno imparato il “come ottenere” nel modo più difficile, e hanno guadagnato l’esperienza necessaria per insegnare ad altri le stesse cose.
Se anche sono individui comunicativi, sono in grado di trasferire la loro esperienza ad altri. Se sono intelligenti, possono continuare ad analizzare il volume di dati sempre in espansione che viene dalla massa dei loro allievi, ed ottenere nuove intuizioni su cosa funziona e cosa no. E se sono quel tipo di persone il cui ego rimane al suo posto, rimarranno recettive per imparare da altri allenatori e professionisti con esperienza.”
Perciò, un “esperto” è uno che ha sbattuto la faccia sulle cose di cui parla, e che ha fatto dei suoi difetti un oggetto di studio. Tramite quello che ha studiato, è migliorato ed è arrivato a livelli decenti in quello in cui vuole essere, appunto, “esperto”. Non serve essere grossi o forti, anzi, è controproducente certe volte, serve invece essere andati ai propri limiti, qualunque essi siano, dedicando tempo a tutto questo.
Stiamo parlando di spostare dei pesi, non di Fisica dei quanti, di qualcosa molto di pancia: le sensazioni… contano. L’ansia prima di una alzata, il pompaggio dopo uno stripping, la paralisi dei muscoli che sembrano che scoppino, il pugno allo stomaco che ti arriva dopo una serie di pressa alla morte: puoi leggere di tutto questo, ma se tutto questo lo vivi hai la capacità di comunicare le stesse sensazioni, puoi avere empatia con chi segui, capirlo molto meglio.
In altre parole, un “esperto” di palestra deve sembrare che la faccia, deve avere un fisico e deve muoversi in modo tale nei gesti della sua disciplina in modo tale da far capire che lui pratica o ha praticato quello di cui parla.
Ho fatto atletica leggera da piccolo, ho 10”4 sui 100 m e 21”57 sui 200 m. Ho fatto powerlifting, ho 200 kg di squat, 120 kg di panca, 270 kg di stacco a 80,7 kg di peso corporeo. Ho sperimentato quello che ho letto negli studi scientifici, ho scritto un libro, DCSS, che parla di tutto questo. Ho una laurea in ingegneria elettronica e una in scienze motorie, questa presa per capire come veramente stavano le “cose del mio mondo”.
Queste “informazioni”, nella loro essenza, mi qualificano. Non sono un “campione” o un “atleta”, non sono un “ricercatore”, però andare ai miei personali limiti mi ha fatto capire moltissime cose del mondo che mi interessa. Cose che posso raccontare e spiegare ad altri, dai quali, ascoltandoli, imparo a mia volta.
Ho sempre interpretato l’allenamento come un enorme esperimento, mi piace l’intero processo cognitivo, dalla teoria alla pratica e il “fare” è ciò che dà valore al “sapere” nel senso che è la pratica che permette di comprendere quali aspetti della teoria siano rilevanti in un dato momento e quali siano importanti ma trascurabili., ed è la pratica che fornisce nuove idee su cui la teoria può indagare, in un circolo virtuoso di miglioramento.
Non sono mai stato “tiepido” nel mettermi alla prova, l’enorme esperimento è sempre stato un crash test, io il dummy giallo con gli adesivi a spicchi neri e bianchi, la stessa determinazione e follia di chi si lancia a mach 1 su macchine-missili su un lago salato: non c’è un motivo razionale per farlo, semplicemente è… bellissimo. Devo dire che alleno molto meglio di come mi alleno e mi arrabbio quando gli altri si comportano come farei io. Però tutto questo mi permette di capire quella sensazione di smarrimento e di terrore che prova chi si fa tanto male da pensare di non poter più praticare ciò che ama.
Ho sempre visualizzato questa passione come una fiamma che riscalda e ti mantiene in vita, ma che se non stai attento ti può letteralmente bruciare vivo e anni fa quando lessi “the big woof” di Dave Tate rimasi a bocca aperta perché trovai la risposta alla domanda fondamentale, perché faccio tutto questo: “noi facciamo quello che facciamo perché questo è ciò che vogliamo fare, la nostra passione ha costruito il nostro carattere, ed il nostro carattere ci definisce come persone”.
Certo, andare ai propri limiti significa anche rischiare… e pagare e io ho spesso pagato e anche molto ma, tornassi indietro, probabilmente rifarei tutto perché, come disse lo scorpione alla rana, “è la mia natura”.
Se tu entrassi in palestra, vedendomi verresti a chiedermi quello che vuoi sapere? Probabilmente no. Essendo un asociale, meglio così per me. Magari poi conoscendomi due parole ce le faresti.
Qui leggerai i miei pensieri sul mondo che mi e ci piace, sarai tu a giudicare se io sia un “esperto” o meno.